Precarietà: un’introduzione. Movimenti propedeutici per danzare dopo la caduta

a cura di Genealogie del Futuro

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Refusi

di Benedetta Manzi

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ALEPH

appunti per una consapevolezza spazio-temporale 

di Roberto Casti

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«Dance, to the radio!»
Futuri epilettici, tempi precari, la danza di Ian Curtis

di Marco Bellinzona

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Il punctum di Kleant

di Virginia Maciel da Rocha

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Labirinto: l’anti paradiso

di Arianna Tremolanti

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Precarietà

di Lorenzo Bonaccorsi

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di Davide Robaldo

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Il cerchio delle streghe

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Latimeria

di Pierluca Esposito

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ANIMALE

di Michele Damna

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 Sweating Cave Pages

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“Non fare” come atto di resistenza alla società della prestazione

di Sofia Rasile

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Cronache di fantasmi al margine

di Olivier Russo e Silvia Ontario

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.sette fiamme per rinascere.

di Stefano Ferrari

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Bibliografia, sitografia, filmografia

per approfondire

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«Dance, to the radio!»¹
Futuri epilettici, tempi precari, la danza di Ian Curtis

di Marco Bellinzona

Ian Curtis e i Joy Division, Live Trasmission, 1979 © Kevin Cummins

Pupille dilatate, occhi lucidi, smarriti.
Le braccia impegnate in una posa rigida, come tronchi, poi libere in un volo sopra la testa.
La bocca mastica un’espressione di pericolo, primitiva, come quella di una bestia in fuga.

Ma Ian Curtis è un prodotto moderno: una macchina, impazzita.

E scappano anche i suoi occhi, dallo sguardo delle telecamere della BBC. 

Lo rincorrono, inquadratura dopo inquadratura, cercando di catturarlo. 

Ma lui, alla camera, non concede neanche uno sguardo.

Ian si dimena in un movimento inarrestabile, non si lascia prendere dallo schermo.

È un gioco di fughe: estatico il suo, senza padroni; disciplinato quello delle camere, che stringono il campo, lo allargano, saltano da un’inquadratura all’altra per intrappolare il corpo invasato di Ian.

Alza un gomito, poi crolla un braccio, all’improvviso, con gli occhi smarriti che proiettano una luce pallida.
Contorce il viso, assorto in una sofferenza febbricitante.
Serra le labbra, chiude le palpebre e spalanca uno sguardo demoniaco.

 

Destra, sinistra. Destra, destra, sinistra. Sinistra di nuovo.
Afferra l’asta del microfono, ci si arrampica, poi la abbandona.

«Confusion in her eyes says it all, she’s lost control»².

E allora si arrendono, le camere, a figure più composte: quelle della band, chiusa in una sobrietà asettica. Quella di Peter Hook, al basso, che con diligenza esegue lo spartito; di Stephen Morris, che picchia moderato sul rullante; di Bernard Summer, immobile, che scioglie alla chitarra l’assolo di She’s lost control

 

Altare e contraltare, compostezza e cortocircuito, grammatica ed errore.
I musicisti sedentari, chini sugli strumenti, Ian in un viaggio nomadico.
Joy Division è il nome di questa contraddizione – e funzionano per questo.

Chiusa l’ultima strofa, Ian aggancia il microfono all’asta, questa volta senza ripensarci.
Libera le braccia e si abbandona a una danza frenetica, paranoica.
Solo qui, le camere capiscono il trucco: campo largo, per inquadrare tutto il palco.

Ora si vede bene. Ma anche se è ipnotica, non è una performance: Ian Curtis soffre di epilessia. Ha imparato a esorcizzare così le sue crisi, mimando gli spasmi e le convulsioni in una danza auto-ironica. 


Contrassegnato da una provvisorietà costantemente minacciata dal sopraggiungere di eventi pericolosi o addirittura catastrofici.

Nella sua definizione, precario è un concetto incompiuto: non è esaustivo, non chiude. Se gli aggettivi definiscono le cose, le cose definite precarie sono destinate a rimanere aperte, sospese nella loro vulnerabilità. Come se l’aggettivo, precario, potesse ferire il sostantivo che denota: ne sferza la corazza e lo espone alla possibilità di un danno, di un trauma che arriverà da fuori. Una cosa precaria, sia una persona che un contesto sociale, non è protetta, chiusa e blindata nella sua integrità: resta in pericolo di subire qualcosa, che arriverà da fuori.

Settembre 1979, finalmente i Joy Division hanno consolidato la loro fama – consacrata dalla BBC, che li ha voluti ospiti al Something Else Show. È la loro prima apparizione in televisione, ne nasce un live incredibile³.
Ma la vita di Ian Curtis era già cambiata: l’anno precedente, nel ‘78, in una gelida notte di dicembre tra le campagne inglesi. C’è una scena, in Control, che descrive quel momento (romanzato, per forza di cose)⁴: un viaggio in macchina, al rientro da un concerto disastroso, dopo una discussione con la band.

Quando Ian, all’improvviso, sbarra gli occhi.
E la testa, gli crolla sul cruscotto.
Inizia a singhiozzare.
Il torace si accartoccia, il corpo lo abbandona: non è più il suo, non ne ha controllo.


Convulsioni, fremiti, fiato strozzato: si può morire, all’improvviso.
Una macchina in avaria, indomabile.
Non risponde al controllo.

 

Il giorno dopo, il giovane Ian riceve una diagnosi drammatica: epilessia.
Ci dovrà convivere per tutta la vita – che sarà breve, non può saperlo. Come non può sapere, Ian, che da quel giorno la sua esistenza sarebbe stata contrassegnata da un aggettivo: precario.

L’epilessia lo taglia, apre in lui uno spiraglio di vulnerabilità che presto diventerà un abisso. Contrassegnato da provvisorietà, come dice la definizione, minacciato dal sopraggiungere di eventi esterni.
Un evento, in particolare: la prossima crisi epilettica, impossibile da prevedere, ma che di certo arriverà.

Per Ian, sarà una ferita inguaribile, che lo esporrà per sempre al timore delle convulsioni improvvise, dell’attacco fatale. Diventa un’ossessione: non dorme la notte, teme di morire nel sonno, da solo, dopo un attacco.  

 

Convulsioni, spasmi che lo colpiscono senza preavviso, senza sapere quando arriveranno. 


La parabola di Ian Curtis è l’emblema del precariato: di una generazione costretta a vivere nell’imminenza della prossima crisi. Crisi che, come per Ian, arriverà – non ci si può fare niente, la sua epilessia è cronica – ma senza sapere quando. Crisi che arriverà, un domani, in un futuro sfocato, ma che si scaglia sul presente con la violenza delle cose inevitabili. E il tempo presente, spezzato dal suo macabro futuro, si mette in ginocchio.
Questa incombenza, avvertita quasi come una necessità in ogni momento presente, è la vera condizione del precariato: essere esposti alla possibilità di una catastrofe. Ma non soffrono, gli esseri della precarietà, per la catastrofe in sé (ambientale, economica, bellica). Soffrono per la possibilità della catastrofe, che si trattiene in un futuro imprevedibile. Abbastanza lontano da non farsi prevedere, abbastanza vicino da farsi temere. In questa attesa straziante, imprevedibile nell’attuazione ma certa nell’avvento, si concentra tutta l’agonia del precariato: il tempo, tremendamente pesante, di un futuro che piomberà addosso. 

 

La crisi epilettica è un nome che vale per tutte le altre: crisi ecologica, crisi finanziaria, crisi geopolitica. La sua imminenza, il suo essere vicina si coniuga in due tempi: presente, futuro.
Per la generazione precaria, la vita oggi è difficile perché, nel suo domani, arriveranno le crisi. 

Un contratto di lavoro senza tutele sul lungo periodo scoraggia progetti futuri, l’avanzamento di carriera, la libertà personale. La crisi finanziaria, che si declina nell’inflazione, nell’aumento dei prezzi e dei tassi di interesse, inibisce gli investimenti e paralizza l’economia. La questione ambientale, con la cecità di Stato e aziende, abbandona alla speranza la prospettiva di tempi migliori. L’intensificazione dei conflitti globali, sospesi nella rinnovata minaccia dell’atomica, destabilizza la tenuta dei contratti internazionali e la promessa – novecentesca – di una pace perpetua.
Crisi multiformi che convergono in un presente, lo stesso: il nostro, in preda alla paranoia del controllo che ci sfugge sempre più. Timoroso, scoraggiato, epilettico.

 

E come un attacco epilettico, non si sa quando le crisi arriveranno – il tempo di attuazione è sospeso in un’atroce attesa, ma è certo che arriveranno.

Ian Curtis vive un presente che agonizza assieme a lui, soffocato da un futuro catastroficamente denso. Essere precari vuol dire vivere in questo presente apneico: la prospettiva della crisi, il peso di un futuro catastrofico toglie il fiato. Ed è questa la vera sofferenza del precariato, la condanna a vivere in un presente strozzato dall’ombra del suo futuro – un presente sottile, asfissiato, compresso tra un attacco epilettico e quello successivo.

 

Una gelida mattina di maggio, Ian Curtis si toglie la vita – due anni dopo il live della BBC, quando ai Joy Division era apparso un barlume di speranza. Ammutolito da una depressione latente, terrorizzato dagli attacchi epilettici, Ian Curtis collassa. Ma nella sua parabola, ci sono i due atteggiamenti fondamentali della vita precaria: l’accettazione e la sfida

 

Il primo, l’accettazione, è il suicidio – metaforicamente, gesto di sottomissione alla precarietà, o meglio, di sottomissione al futuro: il suicidio anticipa e accetta la crisi, una volta per tutte, per annullare finalmente l’agonia di un’attesa straziante. È la fuga, l’ultimo impeto di un presente assottigliato, costretto all’apnea dal suo terrificante futuro. E nella nostra riflessione, il suicidio (di Ian) è l’atto di evasione più estremo, la resa che “salva” dall’imminenza della crisi – attualizzandola, finalmente, portandola nel presente nel suo potere mortifero.

  

Il secondo, invece, è la danza che agisce sfidante. Durante i suoi concerti, il cantante dei Joy Division si abbandonava agli spasmi di una danza scriteriata: scimmiottava i suoi stessi attacchi. Lo scrisse anche la moglie Deborah in un passo della biografia di Ian, Touching from a Distance: «La danza di Ian era diventata un’angosciante parodia delle sue crisi epilettiche»⁵. Angosciante parodia, la definisce lei, ma in Ian Curtis che imita le sue stesse crisi c’è una forma di provocazione dissacrante. Una risposta, una reazione: fare parodia della crisi, trasformare l’avaria della macchina in un ritmo di danza è un gesto di sfida che evoca la crisi, attualizzandola. Come il suicidio, ma in un senso inverso: nel moto di reazione, una risposta.

Chiaramente la crisi non risponderà alla provocazione: abita in un futuro indifferente al presente e, quando dovrà arrivare, arriverà. Ma averne fatto parodia è già in qualche modo un antidoto per il presente, tempo che finalmente riprende respiro.
Imitare l’epilessia era un metodo di Ian per scongiurarla, tenere a bada le convulsioni e impedire che lo aggredissero durante il live. In altri termini: fare ironia del suo stesso dolore, giocare con la sua grande fobia gli concedeva tempo, respiro e libertà. 

 

Certo, la storia di Ian è quella di un dramma suicida, ma nella sua vicenda c’è anche il titanismo di una reazione: la danza impazzita, con cui affronta l’epilessia. Per quanto angosciante, la parodia che Ian fa di se stesso è un atteggiamento di affronto, di sfida verso l’epilessia. Atteggiamento che dissacra e sminuisce le crisi, toglie loro il futuro in cui si nascondono e le porta qui, nel presente. Le affronta, Ian, ballando una parodia che annulla il tempo dell’attesa, lo addomestica per liberare il presente dall’apnea.

La crisi verrà, in un futuro ipotetico che per ora continua a opprimere il precariato; ma il potere di una parodia è di attualizzare il futuro per sminuire il pericolo, ridurlo a un presente in cui non è più minaccioso. Così, dissacrare il futuro e il suo alone di pericolo è un modo per liberarsi della sua incombenza – l’ironia è un’espansione, che finalmente concede fiato, oggi.

Ian,

con la sua crisi,

ci balla. 

Ian Curtis e i Joy Division, Live al Moonlight Club, Londra, 1980 © Peter Anderson

¹ Transmission, in Unknown Pleasure (1979) di Joy Division.

² She’s lost control, in Unknown Pleasure (1979) di Joy Division.

³ Joy Division – She’s Lost Control (Live At Something Else Show), settembre 1979, 

[da Youtube caricato da Agustin Casas Solaro in data 09.02.2013] https://www.youtube.com/watch?v=FD2SfQJOK08 

Control (2007) di Anton Corbijn.

«Certainly Ian’s dancing had become a distressing parody of his offstage seizures». (traduzione dell’autore) in Deborah Curtis, Touching from a Distance. Ian Curtis and Joy Division, Faber and Faber, Londra, 1995, p. 155.

Marco Bellinzona (Bergamo, 1996), si definisce “fisso copywriter e a volte giornalista”. Felicemente filosofo, per lavoro presta parole alla pubblicità, per passione le regala alle riviste.

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