Leggere il corpo-mente disabile: la visibilità obbligata come dispositivo di oppressione
di Julia Arena
Fiorire nel buio: custodire il glitch tra i silenzi di foreste digitali
di Vittoria Martinotti
di Daniel Dolci
L’irregolare intervallo della luce cristallina e del buio pesto delle gallerie mi davano l’impressione di star viaggiando su una striscia di bit formati da zero e uno, da assenza e presenza di energia. Ma dalla mia posizione, mentre guido stanco su quella strada di asfalto bruciato, mi era impensabile immaginare il disegno completo, il poter leggere quei codici misteriosi che stavo attraversando.
Sotto quel sole inaspettatamente caldo per essere aprile, gli alberi e i cespugli della valle sembravano ingiallire come sotto la canicola. Al loro fianco, nascosti dai tornanti sinuosi e arroccati sui pendii, sbucavano di tanto in tanto enormi scheletri di acciaio. Fabbriche e capannoni dismessi e abbandonati di cui non erano rimaste che le strutture portanti, probabilmente troppo costose da demolire. Quelle capriate e quelle enormi colonne arrugginite e spoglie non erano meno maestose dei marmi greci e, sebbene il passato di cui si facevano traccia non fosse così distante, sapevano evocare un potente senso di nostalgia e desolazione.
Sto andando a vedere un’opera d’arte. Un’opera ancora in costruzione, in gran parte da definire, da ultimare sotto tanti aspetti. Sto andando a vedere il prototipo di un’opera. Essa non ha ancora una casa, non si può toccare come noi immaginiamo si possa toccare una scultura o un corpo. Non è altro, in questa fase, che una lunga lista di righe di codice attaccate a una webcam.
Mi siedo davanti allo schermo e guardo.
Le scintille di un tornio illuminano sagome grigie. A quanto pare, l’opera chiede allo spettatore di sorvegliare un macchinario al lavoro.
Bip Bip Bip
Non sono passati pochi attimi che un allarme fastidioso inizia a riempire la stanza. L’artista sposta la finestra con le immagini in movimento del tornio, e appare una schermata dove il mio viso, riflesso nella macchina, viene mappato da linee che codificano le mie espressioni e i miei movimenti.
Premere “a” ogni 5 secondi
Secondi di distrazione: 12
Premo il tasto, l’allarme cessa. Sorvegliare richiede concentrazione, la macchina mi vuole concentrato nel mio compito di sorveglianza del tornio automatico. a. A destra del mio viso, diventato una ragnatela di algoritmi, appare una lunga lista di informazioni su quello che sto facendo:
2025-9-4-15-27-45.890912: Postura scorretta
2025-9-4-15-27-48.890912: Postura scorretta
2025-9-4-15-27-51.890912: Il soggetto è distratto
2025-9-4-15-27-54.890912: Il soggetto è distratto
Mi tiro su con la schiena, ruoto le spalle all’indietro finché non sento tirare i muscoli. Non sono abituato a stare dritto davanti a uno schermo. a.
Bip Bip Bip
Si può sapere cosa c’è ancora?
Secondi senza parlare: 23
Appare una domanda in sovrimpressione:
A cosa pensi?
Significa che devo rispondere, altrimenti quell’allarme non smetterà di piantarsi come un chiodo nei miei nervi sonori. a.
Penso al tornio, o tornitrice, che è uno strumento che fin dalla preistoria ha accompagnato l’umanità nella produzione di oggetti, e oggi è uno dei simboli della manifattura metallica e meccanica industriale. Penso che negli istituti tecnici a indirizzo meccanico lə ragazzə imparano a produrre oggetti con queste macchine. E penso alla sorveglianza, che è una delle parti fondamentali dell’estorsione del lavoro e del dominio del potere. Penso all’invisibilità della sorveglianza e alla sua terribile e impalpabile ambivalenza.
Cos’hai mangiato oggi a colazione?
Un pezzo di colomba e un caffé.
La macchina mi impegna completamente. a. Non basta dover guardare, sentire e premere a ripetizione sulla tastiera. Devo risponderle, devo parlare e, facendolo, essa estrae informazioni dalle mie parole: la mia dieta e le mie abitudini, che a un tempo garantiscono che possa svolgere adeguatamente il mio impiego di sorvegliante, e a un tempo sono benzina che alimenta il grande sistema dei Big Data, prodotti comprati al solo scopo di vendere eccellentemente altri prodotti.
Quante volte sei andato in bagno da quando ti sei svegliato?
Tre. a.
Non sono io che la guardo; è lei che mi scruta. Sono io quello sorvegliato, sono io quello inserito in una dinamica nella quale, passando dagli occhi, un potere discreto ma pervasivo si insinua in tutte le altre parti del mio corpo, della mia vita. Da un lavoro che implicherebbe solamente l’utilizzo del mio sguardo sono costretto in modo invisibile a spremere valore anche dal resto, a mettere al lavoro il mio passato, le mie abitudini e il mio metabolismo. Sono dissezionato dal codice, ma tutto questo accade in modo fantasmatico: alla fine, quest’opera prevede solamente di sorvegliare un tornio meccanico mentre svolge il suo lavoro automatizzato.
Secondi di distrazione: 43
a.
Gli enormi e complessi dispositivi di sorveglianza, intelligenze artificiali capaci sia di estorcere informazioni e lavoro, che di dispensare le persone dalle fatiche quotidiane, riarticolano nuove terribili mansioni dove il confine tra macchina ed essere umano è labile e i compiti invertiti. a.
Questo, e tutto il resto, non sarà altro che la base per le immense rovine industriali del domani. Proprio come quelle fabbriche decrepite, anche questi sistemi non sono che la storpiatura di un sogno di libertà e felicità che non si può fare a meno di inseguire, e che si annida, sopito, in ogni nuova invenzione.
Mentre guido attraverso la valle, per tornare indietro, penso a quanto di me viene dato a questo sistema di estorsione di valore, e penso a quante volte, invece, io riesca a prendere il controllo di ciò che faccio e ciò che penso, e come con il mio sguardo, anziché sorvegliare e consumare, io possa invece iniziare a vedere.
Logout
Il racconto parla dell’incontro tra l’autore e l’opera ancora inedita Entertainment worker di Manuel Ghidini (Brescia, 1997). Essa consiste in un cabinato, dove lə spettatorə deve sorvegliare, in modo fittizio, il monotono e continuo lavoro di un tornio automatico. Tuttavia, mentre chi guarda monitora il tornio, anche l’opera monitora chi la guarda, e lo fa attraverso interazioni invasive e costanti, come un check button di presenza: il tracciamento del volto e della postura per misurare il livello di concentrazione, chiedendo allə utente di parlare attraverso domande mirate, estraendo così informazioni potenzialmente utili al sistema commerciale della compravendita di dati.
Il racconto vuole adattare la complessa e stratificata esperienza dell’opera, definita dall’artista un «paradossale macchinario oculocentrico di lavoro remoto», a un supporto editoriale, dove qualunque immagine non sarebbe stata sufficiente a rendere la complessa e dispotica rete di interazioni e i conseguenti interrogativi che la relazione tra persona e opera solleva.
La pratica di Manuel Ghidini si distingue per l’esplorazione critica delle distopie contemporanee, del potenziale utopico della tecnologia e della fine del lavoro salariato, spesso attraverso l’uso di dispositivi interattivi che sollevano questioni sul ruolo dei lavoratori e sulle dinamiche del fake. La sua opera Entertainment worker incarna queste tematiche, proponendo un’esperienza immersiva che riflette sulle implicazioni del controllo tecnologico e dell’automazione nel contesto contemporaneo. Ghidini impiega installazioni che sollecitano a interrogarsi sul proprio ruolo all’interno di sistemi complessi, evidenziando le tensioni tra presenza umana e meccanismi digitali. Attraverso un linguaggio artistico che fonde elementi performativi e tecnologici, il suo lavoro stimola una riflessione profonda sulle relazioni tra individuo, macchina e società.
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