Invisibile: un’introduzione. 

How to disappear completely

a cura di Genealogie del Futuro 

read more

Miseria del corpo: una fictionance

di Samir Galal Mohamed

read more

Diverse forme di alterità: Annie Ernaux e il corpo assente

di Amanda Rosso

read more

Leggere il corpo-mente disabile: la visibilità obbligata come dispositivo di oppressione

di Julia Arena

read more

Riscritti e Rimossi

di Zeroscena

read more

(In)abitato

di Silvia Manzini

read more

ISOLE

di Desireé Alagna

read more

VELUM

di Camilla Gurgone

read more

I miei occhi sono foglie verdi

di Alessandra Gatto

read more

Wings Under Glass

di Lorenzo Zerbini

read more

Cacher la poussière sous le tapis

di Luca Avigo

read more

LISTEN. 

Il suono come materia architettonica invisbile

di Jael Arazi e Clara Rodorigo

read more

Fiorire nel buio: custodire il glitch tra i silenzi di foreste digitali

di Vittoria Martinotti

read more

Entertainment worker.

Un’opera raccontata

di Daniel Dolci

read more

Donne invisibili nell’editoria italiana.
Intervista a Roberta Cesana

di Anita Fonsati

read more 

Fonti

per approfondire

read more

Leggere il corpo mente-disabile: la visibilità obbligatoria come dispositivo di oppressione

di Julia Arena

Telecamera a circuito chiuso, © WikiCommons
«L’imperativo della trasparenza sospetta di tutto ciò che non si sottomette alla visibilità. In ciò consiste la sua violenza.»1

L’infatuazione della nostra società per l’ipervisualizzazione pone i nostri corpi-menti in una condizione di scrutinio incessante. A osservarci è l’apparato panottico di uno Stato che sorveglia per disciplinare; è lo sguardo voyeuristico segno dei nostri tempi, in cui la linea di separazione tra privato e pubblico si fa sempre più sbiadita e nulla è troppo personale per sottrarsi alla curiosità collettiva; ed è anche, in maniera più subdola, l’occhio che abbiamo introiettato per categorizzare la realtà intorno a noi. La disabilità non fa eccezione e rappresenta anzi un esempio paradigmatico.

 

L’immaginario comune tende ad associare la disabilità a simboli riconoscibili: carrozzine, protesi, bastoni bianchi, impianti cocleari. Questa riduzione iconografica alimenta una richiesta costante di segni tangibili che certifichino l’autenticità dell’identità disabile negli spazi pubblici e istituzionali. I dispositivi medici, gli ausili per la mobilità, le caratteristiche fisiche diventano parte di un codice semiotico da esibire. Il corpo-mente disabile deve essere sempre leggibile, visibilmente “altro”, al fine di giustificare qualsiasi deviazione dai parametri di produttività. È il principio di visibilità obbligatoria descritto da Michel Foucault in Sorvegliare e punire: uno strumento di esame e controllo basato su ontologie chiaramente definite, tramite cui i soggetti vengono resi governabili2.

 

In questo regime della trasparenza, gli individui disabili si trovano in una posizione paradossale. Da un lato, la riconoscibilità accresce il rischio di subire discriminazioni abiliste, che secondo la teorica Fiona Kumari Campbell hanno come origine la nozione di normalità e la contrapposizione tra ciò che è considerato normale, umano, perfetto e «l’aberrante, l’impensabile, l’ibrido quasi-umano e quindi il non-umano». Al contempo, quando la disabilità non è riconducibile alle rappresentazioni dominanti, la sua legittimità viene messa in discussione. Chi non è decifrabile come disabile viene automaticamente assimilatə alla norma della non-disabilità, considerata la condizione umana di default (quella che Robert McRuer in Teoria crip inquadra come «corporeità abile obbligatoria»), in maniera analoga a come l’eterosessualità viene data per scontata fino a esplicita smentita.

 

Particolarmente emblematica è la condizione di chi vive con disabilità dinamiche, il cui impatto in termini di limitazioni varia cioè nel tempo e in base alle circostanze, come accade per molte malattie croniche e neurodivergenze. Una persona che usa una carrozzina ma che è in grado di percorrere brevi distanze a piedi suscita confusione, perché contraddice la concezione della disabilità come qualcosa di statico e immutabile. Un fenomeno significativo è riportato da Ellen Samuels nel suo libro Fantasies of Identification, ovvero la sorveglianza informale che frequentemente viene esercitata intorno ai parcheggi per disabili: chi ne usufruisce senza apparire “abbastanza” o “veramente” disabile diventa oggetto di scrutinio, aggressioni verbali e persino denunce, anche quando in possesso di apposito contrassegno. La legittimità dell’identità disabile si gioca dunque all’interno di un’economia visiva in cui prevale la postura del sospetto. L’onere della prova ricade sempre sulla persona disabile: il mancato adempimento di questa richiesta espone ad accuse di pigrizia, simulazione e frode a spese del sistema.

Parcheggio per disabili, © WikiCommons

La visibilità obbligatoria affonda le sue radici nella razionalità coloniale e capitalista che ha storicamente misurato, gerarchizzato, sfruttato e segregato i corpi-menti in base alla loro utilità, al fine di estrarne il massimo valore. Questa ossessione per la produttività si riflette pienamente nelle pratiche burocratiche e istituzionali: l’accesso a prestazioni di welfare, cure e accomodamenti è subordinato alla dimostrazione della propria incapacità di lavorare o di conformarsi agli standard di efficienza imposti. Ogni dichiarazione personale è sottoposta a un controllo epistemico, radicato nei paradigmi capitalisti della scarsità e del merito: le risorse pubbliche, concepite come beni limitati, sono riservate a chi riesce a provare un bisogno autentico. Samuels definisce tali meccanismi con il termine “biocertificazione”, ovvero «le diverse forme di documenti governativi che mirano ad autenticare l’identità sociale di una persona attraverso la biologia, sostituendo le dichiarazioni scritte ad altre forme di conoscenza e di autorità sul proprio corpo»6.

 

Sotto lo scrutinio sociale e istituzionale, le soggettività disabili vengono spinte a mettere in scena una sorta di performance della disabilità (o masquerade, per usare il termine proposto da Tobin Siebers7), che non è volontaria, ma indotta: per negoziare l’accesso a risorse, riconoscimento o spazio pubblico, il soggetto deve incarnare le aspettative dello sguardo non-disabile. Il panopticon foucaultiano, metafora architettonica della sorveglianza, culmina nell’interiorizzazione dello sguardo normativo: si finisce per agire come se si fosse sempre osservatə.

 

Anche nell’ambito dell’attivismo, la visibilità è stata a lungo celebrata come qualcosa di intrinsecamente emancipante. Tuttavia, sebbene lo sforzo di ottenere riconoscimento per le soggettività non conformi sia fondamentale, esso rischia talvolta di ricadere nella trappola che tenta di scardinare, riproducendo l’imperativo secondo cui solo ciò che si vede è legittimo. In questo modo, il valore delle esperienze personali continua a dipendere dalla loro esposizione pubblica. Tale dinamica si presta alla cooptazione neoliberale, che ingloba le istanze di inclusione all’interno di strategie di mercato calcolate. La rappresentazione dei corpi-menti disabili si traduce così in nuove forme di estrazione di valore, piuttosto che in una reale messa in discussione delle strutture di esclusione.

Posto prioritario su un mezzo pubblico, © Andy Vult, Unsplash

Cosa accade, allora, se respingiamo la visibilità obbligatoria? Se rivendichiamo il diritto a restare invisibili, non come strategia di occultamento, ma come rifiuto della sorveglianza e delle gerarchie implicite tra ciò che viene mostrato e ciò che resta ai margini?

 

Tracciando un parallelo con i regimi di trasparenza imposti alle persone queer, la sociologa Mara Pieri scrive: «l’esperienza dei soggetti invisibili disabili e queer dimostra che è possibile riformulare l’invisibilità come delle strategie attive, con un uguale potere sovversivo, che possono dare luogo a pratiche destabilizzanti e a politiche di contestazione.»8. L’invisibilità, in questo senso, può essere ripensata come zona franca, libera dalle logiche del riconoscimento normativo.

 

Alcunə teoricə hanno elaborato il concetto di “cripistemologie” per proporre una modalità alternativa di sapere situato nel vissuto delle persone disabili: non più una conoscenza della disabilità costruita sul corpo-mente altrui a partire dallo sguardo biomedico, ma da dentro l’esperienza incarnata9. Questo ribaltamento epistemico non suggerisce necessariamente un altro tipo di trasparenza, ma la possibilità di sottrarsi all’illusione della verificabilità totale. Come scrisse Édouard Glissant, occorre «non soltanto acconsentire al diritto alla differenza, ma – ben oltre – al diritto all’opacità, che non è la chiusura in un’autarchia impenetrabile, ma la sussistenza in una singolarità non riducibile. Le opacità possono coesistere, confluire, tramando tessuti la cui vera comprensione si baserebbe sulla tessitura di questa trama e non sulla natura delle componenti»10.

 

Decostruire la visibilità obbligatoria non significa quindi negare l’importanza della rappresentazione o del riconoscimento pubblico, ma interrogarsi sulle condizioni sotto cui la visibilità è richiesta come prerequisito per esistere. Significa abbandonare la dicotomia tra “visibile=vero” e “invisibile=fasullo”, così come quella tra “normale” e “anormale”, per abbracciare una molteplicità di forme che non hanno bisogno di essere validate dallo sguardo dominante. Significa, in ultima analisi, mettere in discussione i fondamenti stessi della normatività capitalista, coloniale e abilista, destabilizzando la sua postura del sospetto e rifiutando di conformarsi a uno standard visivo progettato per soddisfare la fantasia della produttività. La disabilità, in quanto esperienza liminale, ha il potere di svelare nuovi spazi di possibilità: non come semplice soggettività divergente, ma come pratica quotidiana di resistenza e sovversione.

¹ Byung-Chul Han, La società della trasparenza, nottetempo, Milano, 2014, p. 28.

² Per approfondire: Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 2005.

³ Fiona Kumari Campbell, Contours of Ableism: The Production of Disability and Abledness, Palgrave Macmillan, Londra, 2009, p. 6. [Traduzione dell’Autrice].

Per approfondire: Robert McRuer, Teoria crip. Segni culturali di queerness e disabilità, Odoya, Città di Castello (PG), 2023.

Ellen Samuels, Fantasies of Identification: Disability, Gender, Race, New York University Press, New York, 2014, pp. 132-140. [TdA].

Ivi, p. 122. [TdA].

Tobin Siebers, Disability Theory, University of Michigan Press, Ann Arbor, 2008, pp. 96-119.

Mara Pieri, The Sound that You Do Not See. Notes on Queer and Disabled Invisibility, in «Sexuality & Culture», Vol. 23, n. 2, giugno 2019, p. 566. [TdA].

⁹ Merri Lisa Johnson, Robert McRuer, Cripistemologies. Introduction, in «Journal of Literary & Cultural Disability Studies», Vol. 8, n. 2, gennaio 2014, pp. 127-147.

¹⁰ Édouard Glissant, Poetica della relazione. Poetica III, Quodlibet, Macerata, 2007, p. 174.

Julia Arena (Cagliari, 1991) vive a Lipsia, dove lavora come traduttrice e scrive di disabilità. E’ co-ideatrice di NeuroSick Lit, un progetto dedicato alla traduzione di libri incentrati sull’esperienza disabile e sul diritto alla salute. La sua attività di divulgazione, principalmente su Instagram, è radicata nella sua esperienza diretta di persona malata cronica e neurodivergente. Attraverso una prospettiva anticapitalista, Arena esplora la disabilità nelle sue intersezioni con la classe, analizzando le dinamiche di accessibilità, esclusione e resistenza.

Ciao!

Genealogie del Futuro è un’associazione culturale no-profit e le sue attività editoriali sono autofinanziate.

In questo spazio puoi sostenere le nostre attività con una piccola donazione.

Se hai già partecipato ai nostri eventi e ti sono piaciuti puoi aiutarci a realizzare i prossimi.

xenia è anche cartaceo! Se vuoi ricevere la tua copia, scrivici una mail a info@genealogiedelfuturo.com